LA CARITÀ
QUALE NOTA DOMINANTE
 NELL'AZIONE PASTORALE
 DEL BEATO CARLO LIVIERO

Siamo invitati a indagare sulla carità di mons. Carlo Liviero, considerata nell'ambito della sua azione pastorale come vescovo di Città di Castello.
 L'attività pastorale del Beato è dunque, nella prima parte, come la cornice del quadro, dentro cui verrà posta la prestigiosa opera della sua carità, nella seconda parte della conversazione.

Era il pomeriggio di martedì 28 giugno 1910 quando arrivò nella nostra città, con il trenino Arezzo-Fossato di Vico, il nuovo vescovo Carlo Liviero nominato all'inizio dell'anno, il 6 gennaio, quand'era arciprete di Agna nella pianura padana. Quarantaquattro anni, piuttosto massiccio, il volto ampio dai lineamenti marcati. Porta con sé qualche familiare, i bagagli e una gabbia con i canarini.
Porta con sé soprattutto la fama di prete tutto d'un pezzo, di marca veneta, il quale - prima a Gallio poi ad Agna - aveva riportato l'ardore religioso tra quelle popolazioni poverissime.
Ma si era rivelato anche prete scomodo perché, mentre i politici del luogo si perdevano in chiacchiere e promesse, egli aveva creato, negli ambiti parrocchiali, la società di mutuo soccorso, la cassa rurale, l'asilo infantile, la casa per anziani, la cooperativa di generi alimentari per combattere certe forme di usura, una scuola di lavoro ecc.
 
Quel pomeriggio di martedì 28 giugno, nei pressi della stazione ferroviaria c'è molta indifferenza e tanta curiosità da parte della gente, mentre l'irrequietezza  e la preoccupazione sono dipinte sul volto dei politici e degli anticlericali, i quali avrebbero voluto organizzare addirittura un comizio politico in concomitanza con l'arrivo del nuovo vescovo se non fossero stati dissuasi da alcuni benpensanti.
 
Allora la situazione a Città di Castello era veramente grave sotto ogni risvolto. Noi adesso chiudiamo il secolo alla grande per quanto riguarda l'aspetto e economico, tecnologico e industriale; ma all'inizio di questo secolo, più che povertà regnavano la miseria e l'ignoranza. “La Rivendicazione», settimanale socialista-riformista, il 21 novembre 1908 scriveva: “Nel mandamento di Città di Castello il 50% degli adulti è analfabeta ed oltre un terzo dei ragazzi obbligati scuola diserta la civile lega scolastica». L'economia ristagnava perché basata sulle sole risorse agricole: il 70% circa della popolazione viveva in campagna. La mancanza delle necessarie vie di comunicazione rendeva assai problematico lo sviluppo industriale.
 
In questo contesto di arretratezza socio-economica avevano avuto fortuna una Loggia massonica ben agguerrita, piccoli partiti come quello monarchico, radicale ecc., ma soprattutto il movimento socialista, che aveva fatto presa sul popolo perchè cercava di interessarsi ai problemi concreti della gente.
Ma la pecca più grossa dei socialisti di allora era la lotta spietata alla religione, che avrebbero voluto sopprimere ovunque.
 
D'altra parte il famoso non expedit paralizzava anche i cattolici tifernati in campo politico, mentre il movimento modernista della prima ora aveva conquistato un gruppetto di sacerdoti, che  poi si mostreranno ostili al nuovo vescovo. Il risultato era una religiosità rituale e passiva, un assopimento narcotico che si era impossessato sia del clero, moralmente non sempre esemplare, sia del laicato.
Ma torniamo alla stazione ferroviaria dove abbiamo lasciato il vescovo Liviero, ricevuto con notevole freddezza il 28 giugno 1910.
La rivelazione di quell'uomo massiccio, subito giudicato "brutto" dalla gente, si avrà il giorno dopo in cattedrale, al suo primo pontificale per la festa dei santi Pietro e Paolo. Ecco come il nuovo vescovo delinea l'azione pastorale, cioè il suo ministero episcopale:
 
Il Vescovo non deve stare soltanto in poltrona ad ascoltare coloro che gli si presentano.  Egli deve predicare, confessare, beneficare i suoi figli.
Mi troverete quindi tutte le mattine in Cattedrale per confessare e tutte le sere per predicare. Le vostre ansie, le vostre gioie, i vostri dolori saranno anche miei. Avrete in me il Padre che vi ama .
 
Proseguendo nel discorso programmatico, Liviero condensò la sua azione pastorale in tre verbi: insegnare, soccorrere e cristianizzare.
 
Primo compito: “insegnare la Legge di Cristo, che è bella, che è grande, combattendo l'errore ovunque si trova, senza tregua». Siamo in piena sintonia con il Vangelo: “Euntes docete” (Mt. 28,19).
Insegnare che cosa? La legge di Cristo, afferma Liviero, ben sapendo che essa consiste nella carità verso Dio e verso il prossimo.
 
Secondo compito: “Soccorrere la miseria, a costo di qualsiasi sacrificio”. Prima ho ricordato che regnava la miseria in tutte le dimensioni, morali e materiali. E Liviero, uomo della concretezza, si adegua alla situazione.
Egli d'altronde sapeva bene che l’esame finale verterà sopra una sola materia: ero affamato, ignorante, peccatore, .. e sono stato soccorso da te, che mi hai riconosciuto nel tuo prossimo (cf. Mt. 25, 31-46); oppure: scendevo da Gerusalemme a Gerico, sono incappato nei briganti, nelle trappole della vita, ero ai margini della strada, spogliato di tutto, percosso, più morto che vivo... e tu mi hai soccorso senza chiedermi la carta d'identità, il credo religioso  senza guardare il colore della mia pelle". (cf. Lc. 19, 30-37).
 
Terzo compito: «Portare lo spirito cristiano nelle famiglie (cellule della società) e quindi nella stessa società”.
A questo punto qualcuno dirà: a fare discorso tutti o quasi tutti sono bravi; il difficile è fare.
Ebbene, la cosa straordinaria sta nel fatto che da quel mattino di mercoledì 29 giugno 1910 fino al mattino di venerdì 24 giugno 1932 (giorno dell'incidente mortale), il vescovo Liviero - per 22 anni - è rimasto ininterrottamente fedele a quel discorso, con un crescendo di tensione spirituale e di attuazione concreta del suo programma pastorale.
 
Un sacerdote intelligente, che molti di noi hanno conosciuto e che faceva parte di quel gruppetto di sacerdoti ostili, con grande onestà intellettuale e sacerdotale così ha deposto nel processo cognizionale diocesano: «Il lato migliore di mons. Liviero è il suo zelo pastorale, da cui fu animato dal primo giorno del suo ingresso in diocesi fino al giorno della sua morte. Il suo comportamento quotidiano era una espressione continua di zelo pastorale»
 
Dalle parole Liviero passò ai fatti. Per qualcuno fu uno spasso vederlo il mattino prestissimo girare su e giù davanti al Duomo in attesa che il sagrestano aprisse la porta.
Andava per confessare e celebrare la S. Messa.
Venne poi guardato come un marziano quando cominciò a girare tutto solo per la città, come un semplice prete. Qualcuno disse: «è uno scandalo!»; mentre qualche intellettuale parlò di vilipendio alla dignità episcopale. Si trattava invece di un vescovo intelligente che anticipava di oltre mezzo secolo la semplificazione e gli orientamenti pastorali del Vaticano Il.
 
Dalle parole Liviero passò ai fatti. Con la sua attività pastorale Liviero attuò, quanto alla sostanza, ciò che nel Vaticano II si chiamerà Munus docendi (= funzione di insegnare), il primo dei Tria munera (= delle tre funzioni) del ministero episcopale. Liviero ha esercitato il Munus docendi con ogni tipo di predicazione, di istruzioni scritte e orali, di catechesi per ogni fascia di età e di condizione.
 
La signorina Sinnati, un giorno festivo, volle divertirsi a contare i discorsi del Vescovo: arrivò a 20 tra interventi fatti in città e fuori città. Liviero si giustificava così: «bisogna aprire gli occhi a tanti ciechi, bisogna far rivivere la fiaccola della fede in tanti cuori dove si è spenta ,, Una signora che non ho più rivisto dopo la mia andata a Roma, così ha dichiarato nel processo cognizionale: «ti metteva la fede addosso come una pianta di gramigna!» (l'immagine è bellissima).
 
Ma, dato che ci siamo, lasciatemi dire che Liviero esercitò egregiamente anche le altre due funzioni: quanto al munus sanctificandi (= funzione di santificare), Liviero ha riportato a Città di Castello lo spirito cristiano a tutti i livelli della vita individuale e associata, nella vita familiare e in quella consacrata.
Un ottimo e dotto sacerdote, mons. Giuseppe Malvestiti ha scritto la prima insuperabile biografia, che si può definire "classica".
Scritta a tre anni dalla scomparsa di Liviero, vi si respira un'aria genuina e pulita, priva tuttavia di un apparato tecnico-scientifico (note, fonti ecc.) perché l'autore si indirizzava allora ai suoi contemporanei, che avevano visto e udito personalmente ciò che viene riportato nel libro. Mons.Malvestiti scrive: "Un fatto d'indole generale, che si ripete ogni giorno [dopo la scomparsa di Liviero] senza interruzione e senza soste, è la frequenza alle funzioni religiose e ai sacramenti". E ancora: "L'onda delle anime passa e ripassa ogni giorno con incessante moto nelle grandi chiese e nelle piccole cappelle delle confraternite, agitata e sospinta dalla stessa idea dominante e prepotente: pregare, santificarsi, ascendere ,,.
 
La testimonianza di Malvestiti ci porta a ricordare la passione eucaristica di mons. Liviero e il "chiodo fisso" del confessionale dove il Servo di Dio passò una buona fetta del suo episcopato.
 
Quanto infine al munus gubernandi (= funzione di governare) Liviero si presenta, prevenendo il Vaticano II, come pastore e guida per il clero, per i fedeli laici e per i religiosi e le religiose. Dall'esame grafologico risulta che gran parte del carisma di Liviero risiede proprio nella capacità di saper "guidare e governare" pastoralmente. Ho riletto attentamente le ventidue lettere pastorali e sono rimasto impressionato per l'acutezza con cui Liviero fa l'analisi delle situazioni e dei mali emergenti e per la concretezza con cui indica i rimedi, stimolando all'azione sacerdoti, laici e religiosi.
La concretezza gli proveniva dalle quattro visite pastorali (l'ultima fu interrotta dalla morte), mediante le quali aveva fatto la radiografia della diocesi, parrocchia per parrocchia.
Con Lui e dopo di Lui si avrà una fioritura di sacerdoti esemplari per zelo e dottrina, nonché una schiera di religiose, di suore eroiche anche dal punto di vista caritativo; si avranno figure splendide di laici come Giuseppe Torrioli e Virginia Sinnati (l'Armida Barelli della nostra città).
È giunto il momento di chiedersi: qual è l'origine, la sorgente di questo fiume imponente, talora impetuoso come il nostro Tevere in questi giorni. Non occorre, come per il Tevere, salire in montagna, al Monte Fumaiolo, per scoprire la sorgente. Non bisogna andare lontano: basta leggere tre parolette impresse sullo stemma di Liviero: In caritate Christi.
 
L'anima dell'azione pastorale, sopra ricordata, risiede in questi tre termini. Senza quest'anima, che nel tema assegnatomi è stata chiamata «nota dominante», non ci sarebbe stata l'attività travolgente sopra accennata.
Quello stemma, che sintetizza tutto il programma apostolico di Liviero in tre parole rivelatrici, è come lo stendardo, la bandiera che sventola sopra ventidue anni di combattimenti e di conquiste spirituali.
 
a)  Che cos'è la Caritas Christi. È la rivelazione fatta dal Verbo Incarnato su "chi è Dio e chi siamo noi". Riflettendo sui dati della Rivelazione (parole e fatti), della Tradizione e dei Padri della Chiesa possiamo affermare quanto segue, sulle orme di san Tommaso d'Aquino (il più santo dei dotti e il più dotto dei santi): Dio, l'Ingenerato, ab aeterno conosce perfettamente Se stesso generando l'Immagine perfetta e sostanziale di Sé (= il Verbo, il Figlio, il Generato) .
 
In questa Immagine sostanziale è racchiuso pertanto tutto il Bene possibile, cioè il Sommo Bene, per cui il Padre non può non amarsi nel Figlio e il Figlio nel Padre. Da questa operazione ad intra (= nella vita intima di Dio) spira, procede l'Amore come termine distinto che unisce il Padre al Figlio e il Figlio al Padre (= Spirito Santo). Ma occorre tenere presente che in Dio tutto è semplice e indiviso (cf. Summa Tbeologica, III, q. 3, a. 3), per cui possiamo affermare che Dio genera amando e pertanto «è Amore» (lGv. 4,8). In questa generazione eterna rientrano anche le opere ad extra (= fuori delle relazioni trinitarie), quali la creazione dell'universo e la redenzione dell'uomo fatto a «immagine e somiglianza» di Dio (cf. Ef. 1, 3-10). Soprattutto la creatura umana riflette l'Amore divino nel proprio nucleo costitutivo, per cui chi ama i propri simili ama Dio. Nella Caritas il fuoco è unico, anche se diciamo che è rivolto verso Dio e verso il prossimo.
 
b) Partendo da questo tipo di Caritas, Liviero riuscì a fare miracoli anche nel campo delle opere caritative. Ben conoscendo la forza dei segni e dei simboli nella vita umana, il Servo di Dio vide nel Cuore di Cristo l'unica vera immagine della Caritas in tutta la sua valenza. Il cuore di mons. Liviero entrò gradualmente in sintonia con il Cuore di Cristo, tanto che in vero senso e misura si può affermare: cor Caroli, Cor Christi.
 
Il cuore di Liviero batteva all'unisono con il Cuore di Cristo. Un esempio: quando Gesù entrò nella Sinagoga di Nazareth disse, con le parole di Isaia: «[Pater] evangelizare pauperibus misit me»; quando Liviero entrò nella nostra cattedrale disse le stesse cose con parole diverse: «Insegnare (cioè evangelizzare)” e «soccorrere la miseria [morale e materiale] ad ogni costo».
 
Ma passiamo a esaminare la carità di Liviero, che è stata straordinaria nel modo e nella sostanza.
Quanto al modo: un teste qualificato, nel processo cognizionale, ha dichiarato: «Chiunque poteva avvicinarlo e fermarlo per la strada». Un'autentica novità, allora.
Nella nostra città qualche famiglia nobile dava l'elemosina di due centesimi ai poveri, che sostavano fuori della porta, in attesa che il signore mandasse qualche servitore che faceva da tramite.  Anche un Istituto religioso cittadino, allora benestante, dava una fetta di pane bianco (per molti una vera leccornia, allora) ai poveri, servendosi della «servigiana».
 
Questo modo di fare non rientrava nella mentalità di Liviero, che fissò subito un giorno (il venerdi) per i poveri: in quel giorno i bisognosi potevano liberamente entrare nel palazzo episcopale, dove il vescovo li riceveva nel suo studio, ascoltando ciascuno e soccorrendo tutti nei limiti delle sue possibilità.
Il povero, in tal modo, si sentiva rispettato nella sua dignità umana.
 
Quando poi si recava a Pesaro per la Colonia Marina Sacro Cuore in via di costruzione, era vietato agli operai mangiare in disparte: il vescovo li voleva a tavola con lui e li ricolmava di attenzioni e di gentilezze . Certi interventi caritativi infine dovevano avere il carattere di assoluta riservatezza per rispettare particolari situazioni familiari: in questi casi Liviero si serviva di una suora e delle riserve alimentari che giacevano presso mons. Giuseppe Pierangeli .
 
Quanto alla sostanza, la gigantesca opera caritativa di mons. Liviero va riletta e interpretata alla luce della Caritas Christi, in tutta la sua valenza spirituale, se si vuoi essere storicamente obiettivi.
Altrimenti si rischia di essere superficiali e riduttivi, cioè individui che non hanno capito niente della interiorità, della spiritualità e della eccezionale personalità del Servo di Dio Carlo Liviero.
 
In questa prospettiva, per la ristrettezza del tempo a disposizione invito a rivisitare una sola opera colossale di Carlo Liviero, che però è come l'epicentro della sua attività caritativa.
 L'Italia era entrata in guerra il 24 maggio 1915. Per la nostra città pioveva sul bagnato: i richiamati alle armi lasciavano i figli allo sbaraglio, nella miseria più nera. Il cuore di Liviero ebbe fremiti di compassione come quello di Cristo di fronte alla gente provata e affamata (“Misereor turbae» [= sento compassione di questa folla], Mt. 5,32).
 
La sera del I° giugno 1915 Liviero così si espresse in Cattedrale: «Io metterò tutto quello che ho, voi mi aiuterete»; e nella Lettera al Clero e alla Diocesi del 6 giugno successivo, scriveva: «Voi sapete che la nostra missione ci impone non solo di avere cura dei corpi dei figli del popolo, ma molto più e principalmente delle loro tenere anime che, rimaste prive di appoggio e di guida, sono in pericolo».
Nella successiva Lettera del I° luglio 1915 annuncia che dalle parole è già passato ai fatti (com'era nel suo stile di vita!), «fidenti» - scrive - «nella Carità inesauribile del Cuore sacratissimo di Gesù (“chiunque accoglie un fanciullo nel mio nome accoglie me») abbiamo deciso di dare mano all'opera».
 
E infatti la sera del 9 agosto 1915 il vecchio Orto della cera cambia volto e nome: sarà per tutti e per sempre l'ospizio Sacro Cuore (rimasto attivo fino a una dozzina d'anni fa), e raccoglierà bambine e bambini in numero crescente fino a punte superiori a 60 unità.
In una lettera scritta da Pianello Val Tidone nel 1927 Liviero affermava: «L'Ospizio ha raccolto finora 300 bambini: oggi stesso (l0 febbraio) ne raccoglie 65 “

L'Ospizio Sacro Cuore è la perla delle opere caritative di Liviero, anche perché servì a realizzare il sogno della sua vita, la nascita cioè di una raccolta di ragazze, di donne consacrate che, con stile semplice e generoso, lo affiancassero e continuassero nel tempo la sua attività pastorale e caritativa. Il mattino del 16 novembre 1916 fu ricevuto da Benedetto XV e ottenne subito, seduta stante, una cosa che pochi istituti religiosi possono vantare, e cioè la firma papale d'approvazione di una congregazione «di donne [...] che si prestino a tutte le opere di cristiana carità che possono occorrere", facendo speciale menzione dell'occorrenza del momento (i bambini orfani e abbandonati,).
Le suore di Liviero insomma, nel pensiero del Fondatore, sono in prima linea nel fronteggiare le occorrenze, con una carità versatile: il loro fronte si estende «a tutte le opere di cristiana carità che possono occorrere».Andando verso la conclusione, ciò che colpisce nella carità di Liviero è il suo coinvolgimento personale: più della metà delle entrate personali (= la «Mensa vescovile”,) andava per l'Ospizio Sacro Cuore «senza curarsi" - come scriveva il 26 agosto 1915 "dell'avvenire che è nella mani di Dio". Ogni giorno si recava all'Ospizio, dove i bambini accorrevano a Lui come tanti cagnolini, gli facevano festa e gli si stringevano attorno.
 
 Quando un bambino piangeva il vescovo lo prendeva in braccio e gli asciugava le lacrime. Ai più piccoli - come si trova scritto nei cinque libri delle testimonianze sopra ricordati insegnava a soffiarsi il naso e, faticosamente (a causa della sua corporatura), si chinava ad allacciare le scarpette.
La Caritas Christi lo portò a fare il rigattiere del Signore. Udite: "Se avete biancheria vecchia, sedie e tavole rotte, roba fuori uso, portatela a me! E tutto sarà utilizzato per l'Ospizio Sacro Cuore" scandì, una sera in cattedrale, dopo aver letto - com'era solito fare - le offerte della giornata (dai libri delle testimonianze).
La Caritas Christi lo portò a questuare: nell'ottobre 1915 scrive due lettere alla diocesi per implorare zoccoletti, materassini, sottocoperte e cappottini in vista dell'inverno. Durante l'anno si faceva promotore della raccolta di grano, granturco, patate, fagioli e, in montagna, di formaggio. Interessante Liviero quando parla dell'appetito dei suoi assistiti: «I bambini mangiano come ridere mezzo chilo di pane al giorno per ciascuno, e gustano le minestre, le patate, i fagioli, i ceci e qualunque altra cosa: sono ghiotti persino di polenta!» ( quest'ultima cosa era detta con particolare soddisfazione da Liviero, che da buon veneto prediligeva la polenta anche nel menu familiare).
 
La Caritas Christi lo portò a mendicare con queste espressioni: «Fatemi la carità! Fatemi tutti la carità, ricchi e poveri, ma soprattutto voi poveri che sapete quel che vuoi dire il patire. Sono al secco. Vi chiedo la carità! Ve la chiedo in nome di Dio» (lettera del 31 agosto 1926). Con tono più esilarante un'altra volta scrive: «Cittadini e Diocesani, mettete una mano al cuore e l'altra alla... borsa!» .
 
A causa del poco tempo a mia disposizione, in questa conversazione ho potuto accennare soltanto a un'Opera di Liviero e al suo coinvolgimento personale. Ma mi preme evidenziare questo: la Caritas Christi, che animava Liviero, lo portava a mirare alla persona, alla dignità del bisognoso, al suo divenire nella vita. Per cui la carità di Liviero, in genere, non era episodica, occasionale, ma sistematica e possibilmente programmata nel tempo.
 
Sentite la deposizione, fatta al processo cognizionale da un noto tipografo tifernate scomparso da poco (egli è il prototipo di innumerevoli altri casi): «.. se ho avuto un lavoro, una educazione e un avvenire, debbo tutto a Mons. Liviero. Se oggi sono tanto felice anche nella vita coniugale, lo debbo alla grande carità di Mons. Liviero».
 
 
Egli, come tantissimi altri, era stato all'Ospizio Sacro Cuore ed era poi passato attraverso le altre Opere integrative, complementari, di cui faccio appena un cenno: la Scuola Tipografica Orfanelli Sacro Cuore (così chiamata fino al 1955), che avviava al lavoro professionale tipico della nostra zona e offriva a molti orfanelli la possibilità di essere assunti nelle varie aziende tipografiche. Dalla carità di Liviero era sgorgato anche il Pensionato Sacro Cuore, che rappresentava spesso, anche per i ragazzi dell'Ospizio, un rifugio sicuro per continuare a studiare.
Il Pensionato aveva sede nel Palazzo Tini-Pasqui, che era stato acquistato dalla carità di Liviero a prezzo di indicibili sacrifici, e che avrebbe dovuto servire per avviare i ragazzi al lavoro, dopo averli specializzati nei vari mestieri.
 
Liviero infatti aveva creato la "Unione Piccoli Lavoratori Italia lndustre", ma poi il progetto era naufragato per le vicende turbolenti del dopo guerra 1915-1918.
Come integrazione dell'Ospizio, e come luogo ideale per il recupero delle forze fisiche e morali, Liviero aveva costruita la Colonia Marina Sacro Cuore a Pesaro (distrutta dagli eventi bellici dell'ultima guerra e ricostruita dalla carità di Liviero, che sopravvive nelle sue Figlie, le Piccole Ancelle del Sacro Cuore).
 
Quest'Opera integrativa, che costò la vita al Servo di Dio, fu ideata da Liviero come un "monumento vivente" per i caduti della guerra 1915-1918 (lettera del 26 agosto 1925} un monumento eretto "non nella freddezza del marmo, ma nel fuoco della carità per il prossimo".
 
 Un caro sacerdote, che fu parroco vicino a San Giustino, fece questa dichiarazione al processo cognizionale: «ci sarebbe da scrivere all'infinito» per illustrare la carità di Liviero. Condivido pienamente questa affermazione perché la carità di Liviero corre sulla linea della carità di Cristo, per il Quale dice san Giovanni (Gv 21,25) "penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere» se si volesse scrivere ogni singola cosa. lo ho cercato di cogliere solo qualche aspetto della carità di Liviero.
 
Termino con una domanda: che cosa farebbe Liviero oggi, se vivesse nel nostro tempo?
 Sono convinto di una cosa: che vedrebbe con sommo interesse e con simpatia l'iniziativa post-conciliare della Caritas con la sua struttura nazionale, diocesana, parrocchiale e zonale, sostenuta da migliaia di volontari.
Già l'articolo 1 dello Statuto è molto affine alla mentalità di Liviero quando afferma di voler promuovere "la testimonianza della carità in forme consone ai tempi e ai bisogni» con "prevalente funzione pedagogica», tendente cioè - come si fa in questo convegno a educare alla carità, ad acquisire una forma mentis caritativa, che poi si traduce in atteggiamenti e gesti di carità effettiva.
 
L'eccezionale figura del Servo di Dio Carlo Liviero è veramente stimolante, tanto più quando si pensa che nell'attuare la Carità in tutte le sue forme e valenze spesso si serviva di persone modeste, talvolta quasi insignificanti. Aveva ragione Liviero: per la Carità non occorre essere geni.
 
Nella Carità è come quando si scrive: anche le virgole e i puntini sono preziosi perché danno senso alle parole e al concetto che si vuole esprimere.
 
Per dare senso e valore alla nostra vita è bello, credetemi!, è bello essere segni, anche piccolissimi, dell'Amore di Dio: essere virgola, essere puntino caritativo, purché ciò sia manifestazione concreta e costante della Caritas Christi che arde, o dovrebbe ardere, dentro di noi.
 
            Mons. Camillo Berliocchi
 

Dagli Atti del Convegno di Studi
“LA CARITÀ A CITTÀ DI CASTELLO
DA SAN FLORIDO AI NOSTRI GIORNI”
Città di Castello, 23-24 ottobre 1998

 

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